Sono troppo destabilizzanti gli appagamenti raggiunti fuori dalla norma.
— Chirù, Michela Murgia
Non conosco tanti modi per stare vicino a un’amica in difficoltà. Ho una vita sufficientemente semplice e fortunata che per ora mi ha evitato un certo tipo di esperienza. Quella più o meno traumatica, intendo.
In assenza di particolari qualifiche mediche, il mio stare vicino è a metà strada tra una silenziosa spalla su cui piangere e una lieve sdrammatizzazione degli eventi che sto ascoltando, con il solo obiettivo di vedere l’amica tornare a sorridere nonostante tutto.
Un aspetto interessante di questo mio modo di offrire conforto è che mentre provo a mettermi a disposizione per un’altra persona vedo me stesso con occhi diversi. Non posso dire con assoluta certezza di vedermi attraverso i suoi occhi, ma è comunque un punto di vista esterno a me, uno sguardo puntato su ciò che di me abitualmente non vedo.
È come se ascoltare un’amica in difficoltà portasse con sé un insegnamento. Come se il suo dolore mi mettesse di fronte a una maestra e io, inadeguato e capace solo di impacciato supporto, diventassi il suo allievo. Va da sé che l’intenzione dietro al mio aiuto non è quella di strumentalizzare la sofferenza che ho davanti per ricavarne piacere. È innegabile, tuttavia, che più intenso diventa il reciproco scambio di parole e silenzi, maggiore è la probabilità che io scopra qualcosa di nuovo sul mio conto.
Leggendo Chirù di Michela Murgia ho ritrovato questa ambigua sensazione con una precisione glaciale. Eleonora, voce narrante e protagonista del romanzo, si propone come maestra per giovani allievi nei quali lei, e per lo più solo lei, riconosce un’intelligenza diversa dalla media. Si pone come loro mentore esistenziale, accompagnandoli alla scoperta di se stessi in un mondo il cui limite precipuo è la prospettiva che lei, dolce e severa, impone loro.
Nel fare questo Eleonora incontra e spesso si scontra con qualcosa di sé che o non sapeva di conoscere o aveva a lungo tentato di rimuovere. Così facendo, il suo passato si intreccia a più riprese con il presente. Non si tratta, però, di fornire uno sfondo storico alla vicenda. Il passato, ineludibile e rigoroso, determina ogni singolo passo che Eleonora compie, sia esso reticente o schietto. In fin dei conti Eleonora sta fuggendo dalla stessa cosa a cui ritorna in continuazione, inevitabilmente, ossia se stessa.
È interessante la titubanza con cui Eleonora fatica ad accettare di essere stata cambiata dai propri allievi. Certamente riconosce l’impatto che ognuno di loro ha avuto su di lei, e non si nega la soddisfazione di avere cambiato la loro vita, ma il rapporto con quello che rimane di lei dopo ogni allievo è un processo aperto, in perenne via di definizione. Più si avvicina a loro, più impara di sé.
Il problema di Eleonora è che la lezione appresa sembra non bastarle mai. Anche quando mette da parte il desiderio per l’ultima volta, sacrificandolo per la promessa di una sicura stabilità, sta solo tenacemente illudendo se stessa con la speranza di avere sotto controllo la sola cosa che non riesce a controllare. La stessa alla quale, dopotutto, è costretta a ritornare: se stessa.
Chirù non è stata una lettura facile perché anch’io, come Eleonora, vacillo se messo di fronte all’ignoto in me. Accettare di dovermi ancora conoscere del tutto è la lezione che devo fare mia, unitamente alla consapevolezza che non smetterò mai di scoprirmi.
Non credo sia un caso, dunque, che sia stata proprio un’amica in difficoltà ad avermi consigliato questo libro.
Chi è infelice ha tutto da guadagnare, perché è dai baratri che si può sognare il cielo. Chi è felice ha invece tutto da perdere.
— Chirù, Michela Murgia