The master’s tools will never dismantle the master’s house.

Sister Outsider, Audre Lorde

Nel corso della mia carriera come sviluppatore software ho avuto l’opportunità di lavorare per varie aziende, sia italiane che straniere. Un percorso che, da un lato, mi ha impedito di crescere all’interno di una singola realtà, dall’altro mi ha permesso di conoscere tante persone. Do molto valore a questa esperienza, perché mi ha fatto maturare in modi magari non strettamente legati alla carriera professionale ma non per questo meno preziosi. Anzi.

Il mio divenire me stesso è stato accompagnato, tuttavia, da una spiacevole costante. In ogni ufficio che ho attraversato e con tutti i team con cui ho collaborato non è mai venuta a mancare una malsana dose di maschilismo.

Durante i primi tempi della mia carriera non reagivo a quanto succedeva, rivelandomi così, attraverso il mio silenzio omertoso, complice più o meno inconsapevole dei fatti di cui ero testimone. Fuggire da me e capire che stare zitto mi rendeva non meno colpevole degli altri ha richiesto, e per certi versi sta ancora richiedendo, un lungo e intenso processo.

Se è vero che grazie alla filosofia ho cominciato a guardare meglio dentro di me, è altrettanto vero che i primi incontri con l’attivismo hanno palesato l’insufficienza della mia posizione. Sono sulla buona strada, certo, ma ho fatto solamente due passi in avanti. C’è ancora parecchio da fare per superarmi.

Tuttavia, so di essere cambiato quel tanto che basta per avere rotto definitivamente il muro del mio silenzio. A titolo di esempio voglio portare un recente episodio accaduto in ufficio nel quale l’urgenza di obiettare alle parole degli altri ha trovato la mia voce.

Durante una pausa dagli schermi, alcuni colleghi si sono lanciati in una serie di commenti riguardo la presunta incapacità delle donne quando si tratta di programmazione informatica. Al termine di uno scambio di battute piuttosto divertenti dal loro punto di vista, uno di loro si gira e mi domanda: “E tu cosa ne pensi, Manuel?”

Io: “Esattamente l’opposto di quello che pensate voi.”

Il discorso è capitolato in fretta. L’autore della domanda ha provato a portare la sua esperienza a favore della sua tesi, ma non è servito a nulla visto che, per sua ammissione, si tratta di un’esperienza limitata. Al tempo stesso, di sicuro non sarà stata la mia reazione a fare cambiare opinione a lui o agli altri, ma non importa. Dissentire era necessario. Dare fastidio vien da sé.

Al di là del mio rifiutare beceri stereotipi, il problema è la normalità con cui essi persistono negli ambienti di lavoro in cui mi vengo a trovare. Una normalità convincente al punto tale che il cameratismo non solo è dato per scontato, ma non è mai nemmeno messo in discussione. Fra uomini e su temi specifici si è assolutamente certi di trovare conferma del proprio sentire nel collega di fianco, anche quando lo si conosce poco o proprio per nulla.

Io invece trovo che sia un piacere respingere determinate posizioni perché in esse non mi riconosco. È un piacere mettere in crisi la presunta convinzione di trovarsi fra propri simili e per forza di cose in comune accordo. È un piacere, insomma, causare dispiacere.

Le persone non si radicalizzano combattendo le battaglie degli altri.

Manifesti femministi, Deborah Ardilli