Anche con l’aiuto del senno di poi, se devo indicare il punto più basso toccato nel mio percorso di laurea triennale il pensiero va sempre alla stessa aula e allo stesso docente. Quella stessa aula in cui quello stesso docente cercò di convincerci del valore letterario di un testo che ogni aspirante bigotto deve avere a portata di mano, ovvero Il cavallo rosso di Eugenio Corti.
In un’altra occasione il docente in questione, che spesso amava interrompere il flusso della sua esposizione con baldanzosi aneddoti sul suo conto alternati a divagazioni dallo sperato effetto umoristico, si lanciò in un’aggressione verbale rivolta ad alcune università inglesi ed americane. Il nocciolo della sua polemica era che in quegli atenei erano stati rimossi dai curricula dei classici greci come Eschilo perché considerati inappropriati.
Lì per lì, lo ammetto, ci cascai. Guarda un po’, mi dissi, uno che ha capito che la cancel culture è dannosa. Poi però sono tornato più e più volte alle sue parole, specialmente dopo che mi si è rivelato fino in fondo attraverso Eugenio Corti, e due considerazioni hanno capovolto la mia posizione di partenza. Primo, per il docente problematizzare gli incesti e gli stupri nei testi era del tutto fuori luogo alla luce del valore estetico in gioco. Secondo, il fatto che la donna in quei classici non di rado emerga come fragile, subordinata, appropriabile e misurabile in termini di funzione del proprio corpo, era perfettamente in linea con quello che Corti, e di riflesso il docente, pensava delle sue donne.
Mi è tornato in mente tutto questo mentre leggevo Realismo patriarcale di Martina Miccichè, il nuovo libro di un’autrice la cui voce sulla contemporaneità è fra le più interessanti in circolazione. Ad un anno di distanza da Femminismo di periferia, Miccichè ritorna, se possibile, anche più furiosa e decisa nelle sue argomentazioni, ma perché si fa carico di un peso, direi, di molto maggiore.
In Realismo patriarcale, infatti, Miccichè estende il suo raggio di incidenza tematica in modo da completare il quadro che Femminismo di periferia aveva cominciato a delineare. Se nella prima opera si trattava di riposizionarci per capire il significato più profondo dei margini e di chi li abita e vive, qui quegli spazi e quelle vite vengono riarticolate in vista di un più ampio percorso lungo il complicato e pericoloso intreccio fra capitale e patriarcato. Ancora una volta, Miccichè non si nasconde e fa di piccoli, si fa per dire, episodi privati i momenti di avvio per perlustrare quel sistema di oppressioni interagenti, come lei stessa lo definisce1, in cui esistiamo e ignorando il quale chi può permetterselo vede soltanto fin dove vuole vedere.
La trasparenza di Miccichè, che fa della chiarezza nella scrittura un vero e proprio atto politico, colpisce e sa fare male sul serio. Ciò rende Realismo patriarcale, ancor più di Femminismo di periferia, un libro facile da leggere e duro da digerire, come sottolinea giustamente Rachele Borghi nella prefazione, quasi Miccichè avesse preso alla lettera le parole di Kafka sul testo come ascia nel mare ghiacciato dentro di noi. Ma è proprio questo il metodo migliore per comunicare verità scomode ed essere sicure che non ci siano fraintendimenti. Quello che bisogna dire va detto in modo che chiunque lo possa comprendere. Se non scrivesse per tutte e per tutti, Miccichè tradirebbe se stessa, e a me non sembra un’autrice interessata a contraddirsi per ora.
La categoria realismo patriarcale trova il suo compimento letterario ne Il cavallo rosso. Non so se Martina Miccichè abbia letto o meno Eugenio Corti. In caso negativo, mi verrebbe da consigliarle di starne quanto più possibile alla larga, ma penso che non abbia alcun bisogno di me per annusarne il fetore reazionario e reagire di conseguenza. Quello che conta è che, invece di lasciarci con un voluminoso e irrilevante monumento alla propria chiusura mentale, Miccichè preferisce intavolare un discorso faccia a faccia con noi per costringerci a riprendere in mano la storia, a trasformare il presente senza che il passato sia un impedimento in vista del futuro che davvero vogliamo.
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Miccichè, Realismo patriarcale, p. 156. ↩︎